mercoledì 3 settembre 2008

- Fabrizio De Andrè e Cecco Angiolieri

«S'io fossi foco, arderei lo mondo, / s'io fossi vento, io 'l tempesterei».

Cecco Angiolieri, il primo «young angry man» della letteratura europea, iniziava cosi, sette secoli or sono, ilsuo sonetto più «terribile». Nell'èra dei mistici, fra le fioriture leggiadre dei «dolce stil novo», il poeta senese scopriva il gusto acre dell'imprecazione come contravveleno al male di vivere; il lessico della rabbiacome suggello alla disperazione; il ghigno dilatato fino alla volgarità come verifica dei tragico quotidiano.
Fabrizio De André, uno degli autentici «young angry men» della canzone contemporanea, ha recuperato la lezione di messer Cecco nella sua allucinante attualità. Andando bene al di là di certe definizioni di comodo, che fanno di Angiolieri un acido velleitario e un bestemmiatore da trivio, ha compreso a fondo la sconcertante «verità» dei poeta medievale, si è calato entro la drammatica accoratezza della sua «protesta», oggi più che mai viva, parlante più che mai.Ecco perché l'ipotesi di un incontro in ispirito fra il cantore dugentesco e il cantastorie novecentesco non è soltanto suggestiva, è anche credibile. Ovvero il fatto che De André abbia rivestito di musica (un'ironica giava) i versi dei senese, non è casuale ma muove da motivazioni precise. E, quella fra Cecco e Fabrizio, un'occhiata d'intesa fra due autori distanti sette secoli l'uno dall'altro, eppure vicinissimi, quasi parenti.Chi conosce Fabrizio attraverso le sue canzoni - la lunga storia di una ribellione - non faticherà ad accertarsene.Basterà, a scoprire la natura e la consistenza di tale legame, ascoltare questo disco in cui De André ripropone, accanto al sonetto di Angiolieri, alcune fra le pagine più significative della sua produzione di ieri e di oggi. Fra queste ultime è importante rilevare due traduzioni da Brassens, un altro poet a cui il cantautore genovese è legato da particolari affinità di gusto, di scelte, di inclinazioni.A ben guardare, direi che la protesta anzi la ribellione di Fabrizio nasce da un assoluto bisogno di fede, dalla ricerca di un qualcosa in cui credere che è testimonianza d'amore per, l'Uomo, fiducia nel suo divenire. E questa tensione costante a salvare il mondo poetico di Fabrizio dalle sabbie mobili dei nihilismo, a trattenerlo sull'orlo della negazione totale per impedirgli di precipitare. Per sconfortata che sia la sua visione del mondo, vi è sempre l'impulso ad andare avanti, a cercare ancora. Per distaccata e rinunciataria che possa sembrare la sua cronaca, è facile leggervi fra le righe un invito alla lotta, un ammonimento a prendere coscienza della realtà per imboccare altre strade. Questo mi pare vogliano insegnarci i poveri eroi di Fabrizio, solitari campioni di un'umanità che brancola nel buio e cerca la luce, e troppo spesso, vittima dei proprio cammino, inciampa fra i sassi che costellano le vie dell'esistenza. Perché, a guardare in alto, si rischia di incespicare: come Marinella, che muore nel momento stesso in cui scopre l'amore; come Miché, omicida per il timore di perdere la sua ragazza, suicida per la disperazione di averla perduta; come il soldato de «La ballata dell'eroe», che «troppo lontano / si spinse a cercare / la verità»; come Piero, ucciso fra i papaveri dalla furia feroce della guerra, proprio mentre scopre nel grembo di quest'ultima il sapore di un'impensata fraternità: «E mentre andavi con l'anima in spalle / vedesti un uomo in fondo alla valle / che aveva il tuo stesso identico umore / ma la divisa di un altro colore » Eccoci così al tema dell'«homo homini lupus», l'aspetto più inquietante dei dissenso di Fabrizio Da André nei confronti della società. L'uomo non è soltanto vittima dei propri errori o del proprio destino. E soprattutto vittima degli altri, dell'ipocrisia, dell'odio, della malafede dei prossimo. Così la cortigiana sfiorita, di stecchettiana memoria, dei «Testamento», costretta a vendere immagini sacre all'angolo di una chiesa perché il consorzio sociale non le lascia altra possibilità di sussistenza; così quel personaggio di cui si racconta ne «Il gorilla», ucciso dalla corriva «giustizia» degli uomini: «Gridava mamma come quel tale / cui il giorno prima come ad un pollo / con una sentenza un po' originale / aveva fatto tagliare il collo, La morte (dei sogni, dell'amore, della dignità). La guerra, l'odio, il marciume che è dentro e intorno a noi. Sono questi, dunque, i sassi che Fabrizio semina lungo l'itinerario dei propri personaggi, per insegnare a noi a camminare. Sono i capisaldi della sua tristezza - e deHa sua speranza - di artista profondamente partecipe della realtà. Di uomo che vive la vita degli altri uomini, vi si cala fino in fondo e la soffre senza alternative, totalmente. Il fatto che, per esprimerla, egli non di rado ricorra all'umorismo non significa nulla. E, il suo, un humour sempre disponibile ai richiami dei tragico, quotidiano o no. Nessuna voglia di ridere: semmai il sarcasmo «cattivo» di Cecco Angiolieri. Un sarcasmo che è l'alibi dell'amarezza, che ha l'infinita tensione di un pianto rattenuto.
S'i' fosse foco arderéi 'l mondo
s' i' fosse vento lo tempesterei
s'i' fosse acqua i' l'annegherei
s'i' fosse Dio mandereil'en profondo
S'i' fosse papa, sare' allor giocondo
tutti i cristïani imbrighereis'i'
fosse 'mperator sa' che farei
a tutti mozzarei lo capo a tondo
S'i fosse morte, andarei da mio padre
s'i' fosse vita fuggirei da lui
similemente farìa da mi' madre
s'i' fosse Cecco com'i' sono e fui
torrei le donne giovani e leggiadre
e vecchie e laide lasserei altrui
S'i' fosse foco arderéi 'l mondo
s' i' fosse vento lo tempesterei
s'i' fosse acqua i' l'annegherei
s'i' fosse Dio mandereil'en profondo

- Una storica intervista con Fabrizio De Andrè

Una storica intervista con Fabrizio De Andrè, concessa dopo cinque anni di lontananza dal pubblico e dopo la drammatica esperienza del rapimento del 1979.

Come mai hai deciso, dopo cinque anni, di concedere un'intervista?

Soprattutto per dare una risposta a quanti, malgrado questi cinque anni di latitanza (latitanza dalla canzone, perché parlare genericamente di latitanza qui tra questi monti della Sardegna si rischia sempre di essere fraintesi) mi scrivono per chiedermi quando ritornerò a fare quello che considerano il mio mestiere, cioè quello di fare delle canzoni. Desideravo rispondere loro che mi sono trovato improvvisamente con i serbatoi della memoria completamente vuoti. Ho passato questi cinque anni a rifornirli di dati e di notizie ed ora sto scegliendo tra il materiale meno banale.

Come mai hai sempre avuto un rapporto così difficile, diciamo di assenteismo, con i mass media?

Credo che sia fondamentalmente una questione di carattere. Io ho sempre avuto il timore di essere protagonista, e il terrore addirittura di essere invadente; aggiungi anche che sono pigro. Quindi ho sempre considerato i rapporti con i mass media e in particolare le interviste, uno stress evitabile.

Come mai hai deciso di vivere in Sardegna?Tra l'altro sei stato protagonista con la tua compagna Dori Ghezzi di una brutta storia di sequestro. Malgrado questo continui a viverci, come mai?

Per molti motivi, primo dei quali perché le varie etnie sarde, malgrado cospicue differenze di lingua e di cultura, hanno in comune come minimo il rispetto di valori fondamentali in cui credo anch'io. Quindi con loro mi ci trovo bene, parlo della generalità della gente sarda. Un altro motivo è l'ambiente ed è inutile descriverlo, basta guardarsi attorno; credo sia uno dei più spettacolari e dei più puliti d'Europa (anche se io faccio di tutto per bilanciarlo). Un altro motivo per cui io resto in Sardegna è che qui ho sempre un'azienda agricola, che va in qualche maniera seguita. Anche perché un domani io non posso dire ai miei figli "Vi saluto e vi lascio cinquanta canzoni per uno", perché nel mio repertorio non compaiono canzoni come Blue Moon, Star Dust né tantomeno Bianco Natale; voglio dire canzoni che, dal punto di vista dei diritti d'autore, riescono a rendere ricche due o tre generazioni.

Fabrizio, guardando al tuo passato come ti consideri: più cantautore o più poeta? E quali sono le differenze, se esistono, tra canzone e poesia?

A questa domanda ti devo rispondere come tante volte ho già risposto. Benedetto Croce diceva che, fino all'età di diciotto anni, tutti scrivono poesie; dai diciotto anni in poi rimangono a scriverle solo due categorie di persone: i poeti e i cretini. Quindi io, precauzionalmente, preferirei considerarmi un cantautore. Per quanto riguarda l'ipotesi di differenza fra canzone e poesia, io non ho mai pensato che esistessero arti maggiori o arti minori ma, casomai, artisti maggiori e artisti minori.

Quindi se si deve parlare di differenza tra poesia e canzone credo che la si dovrebbe ricercare soprattutto in dati tecnici.I giovani di ieri e di oggi ti considerano una sorta di punto di riferimento culturale, cosa ne pensi?

Probabilmente perché anch'io ho avuto dei punti di riferimento precisi che, a loro volta, avranno avuto sicuramente dei riferimenti in questi punti luminosi della storia dell'espressione umana. Io credo che l'uomo potrà anche conquistare le stelle, ma penso d'altra parte che le sue problematiche fondamentali siano destinate a rimanere le stesse per molto tempo, se non addirittura per sempre.




Nelle antologie scolastiche sono inseriti molti testi delle tue canzoni. La cosa ti imbarazza o ti fa piacere?

Direi che mi imbarazza proprio perché fondamentalmente mi fa piacere. Provo un leggero imbarazzo di fronte a questa mia piccola vanità.

Qual è la canzone che più ti somiglia?

Sicuramente "Bocca di rosa"...

Di cosa ha paura oggi Fabrizio De Andrè?

Sicuramente della morte. Non tanto la mia che, in ogni caso, quando arriverà (se mi darà il tempo di accorgermene) mi farà provare la mia buona dose di paura... quanto la morte che ci sta attorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili, che si ammazzano per dei motivi molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo.

Che valore hanno per te l'utopia e il sogno?

Penso che un uomo senza utopia, senza sogno e senza ideali, vale a dire senza passioni e senza slanci, sarebbe un mostruoso animale fatto semplicemente di istinto e di raziocinio: una specie di cinghiale laureato in matematica pura. Fabrizio, che tipo di presenze ha per te oggi il mare?Pare che perfino Attila si sia fermato davanti al mare. Attila sicuramente non era un buon marinaio, ma può darsi che davanti al mare gli sia bastato sedersi ed immaginare.

Tu che tipo di complicità hai con il mare?

Il mare separa e unisce popoli e continenti. Nel momento in cui li separa direi che stimola il sogno e la fantasia. Nel momento in cui li unisce, vale a dire nel momento dell'intrapresa del viaggio, ti mette in rapporto costante con la realtà. Per quanto mi riguarda, quindi per quanto riguarda il mio mestiere, direi che la complicità con il mare è duplice: c'è una complicità poetica e ce n'è una giornalistica.

Qual è il desiderio che vorresti realizzare?

In questo momento siamo di nuovo un po' al sogno, al desiderio irrealizzabile, all'utopia, ma, sicuramente, in qualsiasi luogo o in qualsiasi momento, rincontrare mio padre.

Che cos'è per te oggi, nel fondo del fondo, la canzone?

La canzone è una vecchia fidanzata con cui passerei ancora molto volentieri buona parte della mia vita, sempre soltanto nel caso di essere benaccetto.


martedì 2 settembre 2008

- Le sue canzoni censurate dalla Rai-Tv, piacciono in Vaticano

Genova, aprile

L'ultimo dei "trovatori", il cantore dei poveri, della gente che conduce una vita normale, in un mondo maledettamente normale, il mondo della grande provincia italiana, l'ho trovato a Genova in un appartamento dalle am­pie vetrate, in faccia al ma­re, sul corso Italia. Si chia­ma Fabrizio De André, ha 28 anni, è sposato ed ha un figlio di nome Cristiano, di sei anni.
Fabrizio De André è l'au­tore di canzoni come Ma­rinella, Carlo Martello tor­na dalla battaglia di Poitier, II testamento e La ballata del Miché. Tutte canzoni censurate dalla commissione d'ascolto del­la Televisione italiana, che le ha giudicate troppo "spinte" per il gusto degli italiani. Immorali, insom­ma. Tutte canzoni che rac­contano storie tristi, anti­che, con un gusto quasi da fiaba. I protagonisti, in­fatti, si salvano sempre e alla fine volano in Paradi­so, perché prima di mo­rire, sono riusciti a guar­dare in alto, alle stelle, ed a chiedere perdono.
Sono andato a trovarlo, per un motivo molto sem­plice; da qualche tempo ogni domenica, verso mez­zogiorno, la Radio Vatica­na trasmette queste stes­se canzoni censurate dalla RAI-TV, nel corso di un programma curato da Pao­lo Scappucci della "Pro Civitate Christiana" di As­sisi e dedicato ai giovani ed ai loro problemi in rappor­to alla vita di oggi.

È afflitto da una terribile timidezza

Raggiungere Fabrizio De André è difficile. Afflitto da una timidezza terribile, preferisce stare nel suo guscio, senza farsi avvicinare da altri che non siano i suoi intimi amici. Un'inter­vista, un servizio fotografi­co, sono per lui un suppli­zio, del quale farebbe vo­lentieri a meno.
Fabrizio mi riceve nel suo appartamento in Corso Italia. Ci accomodiamo in salotto.
« Ho saputo della tra­smissione della Radio Va­ticana », gli dico subito. « È vero che le stesse can­zoni erano state censurate dalla RAI? »
« Eccome! » risponde il cantante. « Di tutte le mie canzoni la RAI ha passato solo Marinella. Le altre, le hanno scartate tutte. »
« Come è stato possibile, dunque, che la Radio Vati­cana le trasmettesse? »
« È una storia » racconta Fabrizio De André « che sembra quasi inverosimile. Un giorno mi venne reca­pitata una lettera della "Pro Civitate Christiana". Quando la lessi, quasi non credevo ai miei occhi. Pao­lo Scappucci, infatti, mi avvertiva che aveva avuto modo di ascoltare alcuni miei dischi e che gli erano piaciuti tanto che li avreb­be messi in onda in una trasmissione domenicale della Radio Vaticana. Più tardi ricevetti un'altra let­tera nella quale mi specifi­cava quali canzoni erano state trasmesse e come erano state presentate. Le canzoni in questione era­no: Si chiamava Gesù, Preghiera in gennaio e Spi­ritual. Tutti pezzi regolar­mente censurati dalla radio-televisione. Non ti di­co quanto mi fece piacere questo fatto! »

Ha anche successo nell'America Latina

Fabrizio De Andre, visi­bilmente eccitato, si alza e, dopo avermi detto di aspet­tare un minuto, si allonta­na, tornando poco dopo con una lettera. L'apre e me la porge. È una delle lettere inviategli dalla "Pro Civitate Christiana". Ne leggo alcuni brani. "Ti dirò" dice la lettera "che molto spesso, quan­do ho occasione di parla­re ai giovani in riunioni o conferenze o dibattiti, porto sempre i tuoi dischi, specialmente Si chiamava Gesù, Preghiera in gennaio e Spiritual (ma anche le altre, perché mi piacciono tutte: stupenda quella sul­la morte! ) oppure cerco di cantare io con la chitarra perché sono estremamente stimolanti per un discorso serio su certe cose... Vo­lentieri ti accenno alla presentazione di Si chiamava Gesù come è avvenuta nel corso della trasmissione del 28 febbraio... Dopo aver presentato la città di oggi con Il ragazzo della via Gluck, abbiamo voluto aprire come una finestra nel cuore di uno che pensa, dentro a queste case di ce­mento, senza più le corse sui prati, il canto del vento e la luce delle stelle. E ab­biamo parlato della tua canzone con queste testua­li parole: Un uomo chiama­to Gesù è venuto da molto lontano, accendendo le stelle e ha alzato nella not­te una tenda fra le nostre tende silenziose e morte, sotto i cedri e gli ulivi dì Betlemme. È venuto a di­re la sua storia delle no­stre generazioni. Anche chi, come l'autore della seguen­te canzone, crede che Gesù fu solo un uomo, rimane inchiodato dalla sua testi­monianza di vita. Non era che un uomo... ma prese la terra per mano, pianse l'ad­dio prima di partire e fu fedele fino in fondo all'A­more. Di Fabrizio De An­dré ascoltiamo Si chiama Gesù. Canta l'autore."... Fu una bella trasmissione -continua la lettera. - Pensa che quasi subito ci ha te­lefonato il redattore di un noto settimanale perché voleva sapere esattamente che cosa pensavamo della canzone e si meravigliava molto che noi l'apprezzas­simo... Naturalmente quan­do riprendendo le trasmis­sioni dopo la Quaresima, io inserirò o farò inserire dai miei colleghi che curano la trasmissione stessa, altre tue canzoni..."
La lettera, inutile sotto­linearlo, mi lascia di stuc­co.
« E questo non è nien­te », continua Fabrizio De André. « Pensa che mi han­no avvertito che nel corso dell'incontro internaziona­le dell'UNDA a Montecar­lo, la "Pro Civitate Chri-stiana", ha dato a Padre Gonzales, direttore delle trasmissioni religiose del­lo Stato di El Salvador del­l'America Latina, le quat­tro trasmissioni con le mie canzoni, per poterle ritra­smettere sulla rete radio­televisiva di quello Stato. Un bel successo, se si tiene conto che in Italia i miei pezzi sono "proibiti"... » termina ironicamente il cantante.
« Si diceva che avresti preso parte alla trasmis­sione Quelli della domeni­ca. Che c’è di vero? »
« Sì », risponde Fabrizio « in un primo tempo ave­vo deciso di parteciparvi, anche perché il presenta­tore, Paolo Villaggio, è un amico mio da moltissimi anni. Con lui ho scritto Carlo Martello ed altre canzoni. »

Gli mancano otto esami per la laurea

« Ho detto di no » conti­nua Fabrizio « quando la televisione mi ha imposto certe condizioni. Volevano che cantassi solo Marinella. Io invece volevo canta­re Si chiamava Gesù e Preghiera in gennaio; quel­le, insomma, trasmesse dalla Radio Vaticana. Mi hanno risposto che non era possibile perché erano sta­te bocciate dalla commis­sione dì ascolto ed allora ho detto no anche alla te­levisione. »
« È vero che non vuoi fare le "serate"? Non ti in­teressano i soldi? »
« Be'... non dico che i soldi non mi interessino... anzi, penso che il denaro interessi un po' tutti, io compreso. Voglio sottoli­neare un altro fatto. Io non sono un cantante-attore. Per fare le serate ci vuole preparazione, grinta e verve. Tutte qualità che io non possiedo. E non in­tendo certo mettermi a studiare recitazione...! Pen­sa che mi mancano otto esami a laurearmi in leg­ge e provo fatica anche a sostenere quelli. Se doves­si accettare due-trecento-mila lire per cantare in un locale, mi farebbe l'impres­sione di averli rubati. Nei locali canto quando ne ho voglia, con gli amici, gra­tuitamente, senza alcun im­pegno professionale. »

I genitori vivono in una villa favolosa

Fabrizio De André si al­za e si avvicina alla fine­stra, gettando un'occhiata distratta verso il mare.
« Standoci spesso », esclama « si perde il senso della bellezza di questo paesaggio. Be', che ne di­resti se andassimo a casa di mio padre? Facciamo due passi. »
Annuisco e usciamo in strada.
I genitori di De André abitano in una villa del '700, in collina. La città si distende sotto le volte an­tiche, uno sfondo favoloso al giardino, dove si allinea­no aiuole e siepi di bosso. Si chiama "Villa Paradi­so". È in tutti i testi di ar­chitettura e di storia del­l'arte.
Chiedo al cantante per­ché preferisce vivere nel­l'appartamento in città, piuttosto che in quella vil­la di fiaba.
« È più forte di me », mi risponde dopo alcuni istan­ti. « Voglio essere solo, in­dipendente, con la mia fa­miglia. Qui, da mio padre, ci vengo ogni tanto, a pas­seggiare, a scoprire i ri­cordi della mia infanzia. Ora ci viene Cristiano, mio figlio. È giusto che veda e apprezzi la bellezza di tut­to questo. »
Superiamo il cancello e giungiamo davanti alla co­struzione. Si apre il porto­ne d'ingresso e ne sbuca una figuretta con un giacchettino blu e pantaloncini rossi. È il figlio del can­tante. Si corrono incontro e Fabrizio lo prende in braccio. Insieme si avvia­no verso la balaustra che cinge il giardino. Sul fon­do la città e più in là il porto con le braccia smi­surate delle sue gru e, in­fine, il mare. Una leggera brezza scompiglia i loro capelli.
Mi metto da una parte e osservo. Capisco finalmen­te perché nascono canzoni come Marinella e Si chiamava Gesù.

ATTILIO NERI

(BOLERO TELETUTTO– 05/05/1968)

lunedì 1 settembre 2008

- Intervista di Fernanda Pivano a Fabrizio de André

Pivano Hai voglia di raccontarci come ti è venuto in mente di fare questo disco?

Fabrizio Spoon River l'ho letto da ragazzo, avrò avuto 18 anni. Mi era piaciuto, e non so perché mi fosse piaciuto, forse perché in questi personaggi si trovava qualcosa di me. Poi mi è capitato di rileggerlo, due anni fa, e mi sono reso conto che non era invecchiato per niente. Soprattutto mi ha colpito un fatto: nella vita, si è costretti alla competizione, magari si è costretti a pensare il falso o a non essere sinceri, nella morte, invece, i personaggi si Spoon River si esprimono con estrema sincerità, perché non hanno più da aspettarsi niente, non hanno più niente da pensare. Così parlano come da vivi non sono mai stati capaci di fare.

P. Cioè, tu hai sentito in queste poesie che nella vita non si riesce a "comunicare"? Quella che a me pare la denuncia più precorritrice di Masters, la ragione per la quale queste poesie sono ancora attuali, specialmente tra i giovani?

F. Sì, decisamente sì. A questo punto ho pensato che valesse la pena ricavarne temi che si adattassero ai tempi nostri, e siccome nei dischi racconto sempre le cose che faccio, racconto la mia vita, certo di esprimere i miei malumori, le mie magagne (perché penso di essere un individuo normale e dunque penso che queste cose possano interessare anche agli altri, perché gli altri sono abbastanza simili a me), ho cercato di adattare questo Spoon River alla realtà in cui vivo io. Perché ho scelto Spoon River e non le ho addirittura inventate io, queste storie? Dal punto di vista creativo, visto che c'era stato questo Signor Lee Masters che era riuscito a penetrare così bene nell'animo umano, non vedo perché avrei dovuto riprovarmici io.

P. Sicché le grosse manipolazioni che hai fatto sui testi sono state come delle operazioni chirurgiche per rendere il libro attuale, contemporaneo?

F. Sì. Addirittura per rendere più attuali i personaggi, per strapparli alla piccola borghesia della piccola America del 1919 ed inserirli nel nostro tipo di vita sociale. Quando dico borghesia non dico babau, dico la classe che detiene il potere e ha bisogno di conservarselo, no? il suo potere. Ma anche nel nostro tipo di vita sociale abbiamo dei giudici che fanno i giudici per un senso di rivalsa, abbiamo uno scemo di turno di cui la gente si serve per scaricare le sue frustrazioni (è tanto comodo a tutti, uno scemo...)

P. Dal libro hai preso nove poesie, scegliendole tra le più adatte a spiegare due temi che sembravano le più insistenti costanti della vita di provincia: l'invidia (come molla del potere esercitata sugli individui e come ingnoranza nei confronti degli altri) e la scienza (come contrasto tra l'aspirazione del ricercatore e la repressione del sistema). Perché proprio questi due temi?

F. Per quanto riguarda l'invidia perché direi che è il sentimento umano in cui si rispecchia maggiormente il clima di competitività, il tentativo dell'uomo di misurarsi continuamente con gli altri, di imitarli o addirittura superarli per possedere quello che lui non possiede e crede che gli altri posseggando. Per quanto riguarda la scienza, perché la scienza è un classico prodotto del progresso, che purtroppo è ancora nelle mani di quel potere che crea l'invidia e, secondo me, la scienza non è ancora riuscita a risolvere problemi esistenziali.

P. Chi ha fatto questa scelta dei temi e delle poesie?

F. Dopo aver fatto la scelta ne ho parlato con Bentivoglio al quale ho proposto di aiutarmi in questo lavoro. Tra noi ci sono state molte discussioni, come è ovvio e come è giusto. Bentivoglio tendeva a fare un discorso politico e io volevo fare un discorso essenzialmente umano. Alla fine la fatica più dura è stata, mai rinunciando a esprimere dei contenuti, quella di accostarsi il più possibile alla poesia. Fatica a parte devo dire che vorre incontrare un centinaio di Bentivoglio nella vita: se vivessi cent'anni, un disco all'anno, sarei l'autore di canzoni più prolifico del mondo.

P. Puoi spiegarmi meglio l'idea del malato di cuore come alternativa all'invidia?

F. Se ci riuscissi. Gli altri personaggi si sono lasciati prendere dall'invidia e in qualche maniera l'hanno risolta, positivamente o negativamente (lo scemo che per invidia studia l'enciclopedia britannica a memoria e finisce in manicomio, il giudice che per invidia raggiunge abbastanza potere da umiliare chi l'ha umiliato, il blasfemo che è un esegeta dell'invidia e per salirne alle origini la va a cercare in Dio); invece il malato di cuore pur essendo nelle condizioni ideali per essere invidioso compie un gesto di coraggio e...

P. Possiamo dire che ha scavalcato l'invidia perché a spingerlo non è stata la molla del calcolo ma è stata la molla dell'amore?

F. Ma sì, l'avrei detto io se non lo avessi detto tu.

P. E allora possiamo concludere con la vecchia proposta di Masters, che a trionfare sulla vita è soltanto chi è capace di amore?

F. Sì, a trionfare sono i "disponibili".

P. Anche per il gruppo della scienza hai trovato un'alternativa, vero? Bentivoglio mi diceva che per rappresentare il tema della scienza hai scelto il medico che ha cercato di curare i malati gratis ma non c'è riuscito perché il sistema non glielo ha permesso, il chimico che per paura si rifugia nella legge e nell'ordine come fatto repressivo e l'ottico che vorrebbe trasformare la realtà in luce e nel quale hai visto una specie di spacciatore di hashish, una specie di Timothy Leary, di Aldous Huxley. In che modo il suonatore di violino è un'alternativa?

F. Il suonatore di violino (che è diventato per ragioni metriche di flauto) è uno che i problemi esistenziali se li risolve, e se li risolve perché, ancora, è disponibile. E' disponibile perché il suo clima non è quello del tentativo di arricchirsi ma del tentativo di fare quello che gli piace: è uno che sceglie sempre il gioco, e per questo muore senza rimpianti. Non ti pare perché ha fatto una scelta? La scelta di non seppellire la libertà?

P. Allora si può dire che è questo il messaggio che hai voluto trasmettere con questo disco? Perché siamo abituati a pensare che tutti i tuoi dischi hanno proposto un messaggio: quello libertario e non violento delle tue prime ballate, come nella Guerra di Piero, quello liberatorio della paura della morte come in Tutti morimmo a stento, quello demistificante dei personaggi del Vangelo, come nel Testamento di Tito. Qual è il messaggio di questo Spoon River?

F. Direi, tutto sommato, che siamo usciti dall'atmosfera della morte per tentare un'indagine sulla natura umana, attraverso personaggi che esistono nella nostra realtà, anche se sono i personaggi di Masters.

P. E' chiaro che le poesie le hai tutte rifatte. Per esempio, nella poesia del blasfemo, tu hai aggiunto un'idea che non era in Masters, quella della "mela proibita", cioè della possibilità di conoscenza, non più detenuta da Dio ma detenuta dal potere poliziesco del sistema.

F. Non mi bastava il fatto traumatico che il blasfemo venisse ammazzato a botte: volevo anche dire che forse è stato il blasfemo a sbagliare, perché nel tentativo di contestare un determinato sistema, un determinato modo di vivere, forse doveva indirizzare il suo tipo di ribellione verso qualcosa di più consistente che non un'immagine così metafisica.

P. Mi diceva Bentivoglio che se la "mela proibita" non è in mano a un Dio ma al potere poliziesco, è il potere poliziesco che ci costringe a sognare in un giardino incantato. Cioè, il giardino incantato non è più quello divino dove secondo Masters l'uomo non avrebbe dovuto sapere che oltre al bene esiste il male.

F. Sì, in realtà per il blasfemo il giardino incantato non è stato creato da Dio ma è stato addirittura inventato dall'uomo e comunque la "mela proibita" è ancora sulla terra e noi non l'abbiamo ancora rubata. A questo punto hai capito che cosa voglio dire io per sognare: voglio dire pensare nel modo in cui si è costretti a pensare dopo che il sistema è intervenuto a staccarci decisamente dalla realtà.

P. Mi pare che la tua aggiunta non sia una forzatura, perché anche nella denuncia della manipolazione del pensiero, del lavaggio mentale esercitato dal sistema, Masters è un precorritore dei nostri problemi. Cerca di dirmi in che modo, quando eri ragazzo, a un ragazzo della tua generazione Masters è sembrato un contestatore.

F. Perché denuncia i difetti di gente attaccata alle piccole cose, che non vede al di là del proprio naso, che non ha alcun interesse umano al di fuori delle necessità pratiche.

P. Cioè più che la sua contestazione politica ti ha interessato la sua contestazione umana?

F. Sì, secondo me il difetto sostanziale sta nella natura umana.

P. Ritornando alle tue manipolazioni del testo, possiamo dire che l'aggiunta di questo concetto della "mela proibita" non detenuta da Dio ma dal potere del sistema è la manipolazione più grossa. D'altronde è passato mezzo secolo da quando Masters ha scritto queste poesie, sicché se questa galleria di ritratti la potesse riscrivere adesso non c'è dubbio che la sua vena libertaria gli farebbe inserire elementi che si è limitato a sfiorare come precorritore. Questo vale anche per l'altra grossa manipolazione che hai fatto, quella dell'ottico visto come proposta di un'espansione della coscienza. Ma proprio dal punto di vista stilistico, perché hai sentito la necessità di cambiare la forma poetica di Masters? Bentivoglio mi diceva che il verso libero di queste poesie non ti serviva, avevi bisogno di ritmo e di rima, questo è chiaro. Ma sembra quasi che tu abbia voluto divulgare, spiegare a tutti i costi.

F. Sì. Mi pareva necessario spiegare queste poesie; poi c'era la necessità di farle diventare delle canzoni. Cioè delle storie e una storia non è un pretesto per esprimere un'idea, dev'essere proprio la storia a comprendere in sé l'idea.

P. Ma come spieghi per esempio il fatto di aver usato parole di un linguaggio contemporaneo quasi brutale, per esempio nel verso della poesia del giudice "un nano è una carogna di sicuro perché ha il cuore troppo vicino al buco del c..." e di avere per esempio inserito immagini come "le cosce color madreperla" in poesie che pur essendo piene di sesso sono espresse per lo più in forma asettica, quasi asessuata?

F. Perché anche il vocabolario al giorno d'oggi è un po' cambiato, e io ero spinto soprattutto dallo sforzo di spiegare il vero significato di queste cose. Quanto alla definizione del guidice, questo è un personaggio che diventa carogna perché la gente lo fa diventare carogna: è un parto della carogneria generale. Questa definizione è una specie di emblema della cattiveria della gente.

P. Tutto sommato mi pare che queste siano state le manipolazioni più pesanti che hai fatto ai concetti e al testo di Masters; e d'altra parte quando il libro è uscito, ai suoi contemporanei è sembrato tutt'altro che asettico e asessuato: il gruppo dei Neo-Umanisti lo aggredì come "iniziatore di una nuova scuola di pornografia e sordido realismo".

F. Capirai.

P. Comunque sono certa che non deluderai i tuoi ammiratori, perché le poesie le hai proprio scritte tu, con quella tua imprevedibile, patetica inventiva nelle rime e nelle assonanze, proprio come nelle poesie dell'antica tradizione popolare. Ma fino a che punto, per esempio, ti sei identificato col suonatore di violino (Jones, che nel '71 suona il flauto) che conclude il disco? E non voglio alludere al fatto che da ragazzo ti sei accostato alla musica studiando il violino.

F. Non c'è dubbio che per me questa è stata la poesia più difficile. Calarsi nella realtà degli altri personaggi pieni di difetti e di complessi è stato relativamente facile, ma calarsi in questo personaggio così sereno da suonare per pure divertimento, senza farsi pagare, per me che sono un professionista della musica è stato tutt'altro che facile. Capisci? Per Jones la musica non è un mestiere, è un'alternativa: ridurla a un mestiere sarebbe come seppellire la libertà. E in questo momento non so dirti se non finirò prima o poi per seguire il suo esempio.


Fernanda PIVANO
Intervista registrata a Roma il 25 ottobre 1971.

F. Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di venti anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt'altra tendenza. E' successo tra il '37 e il '41: quando questo ha significato coraggio.


Fabrizio DE ANDRE'

" PREMIO TENCO "

Fernanda Pivano premia Fabrizio De Andrè